lunedì 22 agosto 2011

LIBIA:COME SI VIVE SOTTO LE BOMBE?


Ogni sera sotto le bombe
con l'incognita del futuro

di GIOVANNI INNOCENZO MARTINELLI*


Per concessione del settimanale Vita 1 pubblichiamo il contributo da Tripoli del vicario apostolico Giovanni Innocenzo Martinelli

TRIPOLI - Le bombe qui a Tripoli cadono quando scende il buio. Iniziano verso le nove della sera, ogni sera dal 17 marzo in qua. È un crescendo sino alle tre di notte. Quando viene identificato un obiettivo cominciano i sorvoli, e i rimbombi, un colpo dietro l'altro. Non capisco neanche cosa colpiscano, con tutte quelle bombe: quando a Bab Al Aziziyah, dove c'è il bunker di Gheddafi, colpiscono una, due, tre volte... basta!, dico io, non ha più senso continuare a bombardare. Per le persone che vivono qui a Tripoli è una tortura, si sta in un terrore continuo: quando si sentono per tutta la notte gli aerei che ti girano sopra la testa, e poi ogni tanto una bomba che cade, e i clacson delle macchine che portano i feriti, monta la paura, chi riesce a dormire?

Dicono che le bombe siano mirate ad obiettivi strategici. Mi chiedo quanti siano questi obiettivi se questa guerra assurda va avanti da quasi sei mesi. E poi non è vero che le bombe siano destinate solo a Gheddafi e a chi lo sostiene. L'altra notte è stato bombardato un grande capannone qui in città. Era un deposito che conservava cibo, pasta, olio... Bombardarlo è stato veramente un insulto alla Provvidenza. Settimana scorsa una stazione radio è stata sfondata da un ordigno, che ha squarciato anche le case tutto intorno. Non mi dicano che erano obiettivi 

strategici anche quelle...

Questo, avviene di notte. Durante il giorno poi la vita scorre a un ritmo quasi normale: c'è chi va al lavoro, fino a poco tempo fa c'era la scuola... Almeno apparentemente continua una certa vita sociale, e ora che siamo in periodo di Ramadan anche la sera si comincia a vedere un certo movimento.

Nella quotidianità, una conseguenza della guerra è l'aumento dei prezzi dei beni alimentari, che sono addirittura triplicati: la vita, per tanti, diventa difficile. Capisco la guerra e le difficoltà diplomatiche, ma non capisco perché non si possa aiutare la gente che soffre. È necessario venire a vedere, per capire quanto ci sia bisogno di aiuti anche a Tripoli. Bisogna aprire dei corridoi umanitari, toglierci dall'isolamento.

Tempo fa le Nazioni Unite avevano fatto pervenire cibo e materiale da Tunisi, e noi ne abbiamo distribuito alle persone che avevano più bisogno, adesso però non arriva più niente. Non so se realmente non ne hanno più, se hanno chiuso le porte, se forse ricominceranno di nuovo... Pare che vogliano aprire un canale da Malta, che la Croce Rossa volesse tentare una cosa del genere, ma nessuno ti dice che cosa vogliano fare.

Ciò che mi colpisce di più di questa città in guerra sono le file di macchine per fare il rifornimento di benzina. Davanti a ogni stazione di benzina ci sono almeno trecento, quattrocento auto che attendono anche due giorni in coda prima di fare il pieno. Paradossale, in un Paese che produce tanto petrolio: non arriva più benzina? Forse le raffinerie sono state sequestrate? O forse è una forma di embargo? Non riesco a capire. Sta di fatto che non c'è benzina, in città. Con le istituzioni locali non abbiamo quasi più rapporti, se non con gli uffici che gestiscono i servizi sociali e con cui siamo più in contatto, e quindi risposte a questi come a tanti altri quesiti non le abbiamo.
Quasi ogni giorno c'è qualche giornalista che ci chiama: per sapere com'è la nostra vita, cosa ne pensiamo della situazione, vogliono sentire il nostro parere. Si può dire che il nostro impegno più forte, oltre a quello pastorale, è rispondere alla stampa, alle televisioni e alle radio di qualsiasi nazionalità. Anche alla televisione nazionale libica, e alla stampa locale. Non ci sottraiamo alle domande, perché pensiamo sia importante dare la nostra testimonianza. Siamo una piccola comunità francescana, qui nella capitale della Libia in guerra: tre sacerdoti filippini, un maltese, un egiziano e il sottoscritto. Poi c'è una comunità di suore che opera nei centri sociali che accolgono persone disabili e anziani.

Da quando sono iniziati i bombardamenti noi padri abbiamo dovuto ridurre le funzioni religiose: non è prudente per le persone uscire la sera, allontanarsi dalla propria casa. E anche per chi celebra è meglio non girare in città dopo il tramonto. La domenica, celebriamo la messa solo la mattina, e così facciamo anche il venerdì e il sabato. Facciamo i servizi religiosi in inglese, in francese e celebriamo qualche messa anche in italiano, per gli italiani che ancora sono presenti in città. La nostra ormai è una pastorale ridotta al minimo: prima si girava tutto il Paese per incontrare le comunità cristiane, ora abbiamo perso i contatti con le altre città libiche.
Fino a qualche settimana fa da Tripoli era possibile raggiungere Misurata, ora non più. Anche le suore presenti a Yefren, che prestavano assistenza in ospedale, hanno dovuto far ritorno alla capitale. L'unico è padre Serso, uno dei nostri fratelli filippini, che riesce ad arrivare fino a Sebha, la città giù ai confini con il deserto, nel Fezzan. Si muove in corriera, o con i taxi collettivi: va e si ferma un paio di giorni lì dove c'è una grossa comunità di immigrati dall'Africa subsahariana. Sta con loro, svolge i servizi religiosi, e poi torna. Più a sud di Sebha è impossibile andare.

Qualche giorno fa abbiamo incontrato le rappresentanti di un comitato di donne musulmane: "Grazie per le vostre preghiere", ci hanno detto. "Grazie per essere insieme a noi, che sperate come noi che la Libia possa tornare in pace. Monsignore, chieda al Papa di far terminare i bombardamenti, perché i nostri bambini soffrono".
A loro non interessa se io sia italiano o libico, vescovo o no (ma io sono nato in Libia...). Mi conoscono per quello che faccio e che dico, mi conoscono per la mia funzione, per le mie posizioni che vengono riprese anche nei loro giornali, e sono molto attenti a quello che io dico alla stampa italiana. Sanno bene come la penso.

Qualche mattina fa è venuto a trovarci un signore con un paniere di fichi, belli, freschi. "Ma perché?", gli ho chiesto io, sorpreso. "Perché siete con noi", mi ha risposto, e senza aggiungere altre parole ci ha salutato ed è andato. È un piccolo segno, importante, di amicizia in questa situazione in cui tutti qui a Tripoli ci troviamo.
In occasione del Ramadan avevo chiesto una tregua per i bombardamenti, e in Italia diversi uomini politici, oltre al Vaticano, si sono fatti promotori di questa iniziativa. Quando hanno saputo di questa mia iniziativa, qui a Tripoli sono rimasti sorpresi: "Ma come, il vescovo cattolico chiede una tregua per noi musulmani, e noi musulmani non riusciamo a fare corpo per chiedere questa cosa?".

Purtroppo il mio appello è stato rigettato, direi quasi con disprezzo: "No, Gheddafi deve andare via", dicono, "non ci interessa il Ramadan. I bombardamenti continueranno fino a quando lui non andrà via". Non sanno il disastro che stanno combinando ostinandosi a fare la guerra. Non parlo solo dei danni materiali, delle vite uccise, delle case distrutte, della paura che paralizza anche le attività normali. Parlo del futuro. Che Libia potrà mai uscire dalla logica delle bombe? Loro non conoscono la vera anima di questa terra, che non può esistere se divisa. Questo Paese si è sforzato di vivere l'unità nonostante la diversità dei suoi ambienti, quello del deserto, quello della Cirenaica, la Tripolitania. E nel bene o nel male Gheddafi ha dato un'identità alla Libia, un'identità certamente musulmana, ma anche aperta al progresso.

Invece di buttare le bombe bisognerebbe aiutare la Libia a darsi un futuro. Così dovrebbero fare Paesi che si dicono "civili". Qui ci sono già tante persone che hanno un'idea positiva per la Libia. Le conosco, le incontro ogni giorno: mi auguro che ci sia presto un'intera classe politica capace di governare. Ci sono persone valide, che si sono distinte in questi anni. Bisognerebbe fare le elezioni, creare dei comitati locali. La Libia è un Paese meraviglioso: ha solo bisogno di proseguire il cammino alla ricerca della propria identità. Che è quella musulmana, araba, beduina. Bisogna aiutarla a crescere.

* (l'autore è vicario apostolico di Tripoli)
 
(21 agosto 2011)


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